DI LÀ DA L'AGHE, SPILIMBERGO di Gianni Colledani
A partire da questo numero dedicheremo ampio spazio alla singolare vicenda umana e storica degli arvârs, gli stagnini ambulanti della Val Tramontina. Racconteremo della loro fatica e del loro stagionale girovagare tra Veneto, Romagna, Emilia e Mantovano alla ricerca di pentole e paioli da rattoppare. Scopriremo assieme i segreti del taplâ par taront, ovvero del parlar furbesco che usavano per non farsi capire quando stavano tra genti foreste.
Ma prima di metterci in cammino a loro fianco indagheremo sulle radici umili e antiche, spesso misteriose, di questa storia. Ne guadagnerà la chiarezza. Spesso infatti, per andare avanti, occorre fare un passo indietro.
Ho incontrato per la prima volta gli arvârs grazie a una semplice, strana parola. Frequentando a Spilimbergo, verso il 1965, alcune famiglie originarie della Val Tramontina (tante avevano lasciato da pochi anni la valle a causa dell’invaso prodotto dalla diga di Redona), mi aveva incuriosito il fatto che, quasi tutte, chiamassero il gatto Dolfu. Ma perché Dolfu?, mi chiedevo, con tanti bei nomi che ci sono in giro! Poi qualcuno mi spiegò che questo era il nome del gatto nel taplâ par taront dal arvâr. Ecco, posso dire che è da lì che è cominciata la mia avventura nel mondo degli arvârs. Col tempo la curiosità, invece di sopirsi, si è accresciuta grazie anche a qualche fortunato incontro con epigoni di quel mondo fatto di cavalli e barei, di biciclette, di pentole e di tegami, di sudore e di fuliggine, di sacrifici e di affetti negati a conferma di un fin troppo realistico detto nostrano: “Un franc cjapât sot di tet al è un franc benedet”.
Conzalavezi a Venezia
Siamo a Venezia, sul finire del Settecento.
Per calli e campielli si muovono diverse categorie di ambulanti pronti, al richiamo delle parone, a soddisfare le più varie e minute richieste domestiche.
Nel dedalo delle viuzze si incrociano i soggetti più strani per provenienza e tipologia, resi accorti dalla dura necessità del mestiere del vivere.
Di questa varia umanità in movimento ne è testimone il mirabile manuale “Le arti che vanno per via nella città di Venezia” con 60 tavole incise e commentate in versi da Gaetano Zompini, e lì stampato nel 1785.
Questo manuale è lo specchio fedele di un’epoca e di un mondo. Incontriamo infatti i montagnoli di Rolle a vendere pignatte furlane, spazzacamini della Val Brembana, impagliatori di seggiole del Cadore, ciambellai cioè venditori di colaçs e bussolai dei Grigioni, venditori di sabbia fine per lucidare recipienti di ottone, stagno, rame e ferro, e poi straccivendoli, erbivendoli, pescivendoli, pollivendoli, cantori, imbonitori e cartomanti, vetrai, bottai, burattinai, fiorai, vinai e gli antenati dei fotografi e dei cineasti che reclamizzano la magica cassela del Mondo Niovo che mostra “lontananze e prospettive”.
Ma soprattutto ci sono, per quanto riguarda il Friuli, gli arrotini della Val Resia, i terrazzieri della pedemontana pordenonese (Arba, Fanna, Cavasso, Sequals, Solimbergo) che restaurano vecchi pavimenti e ne fanno di nuovi, di quei che val cechini.
A Venezia non guadagnano certo bei zecchini i nostri legnaioli. Versi espliciti commentano la relativa incisione: “Per tagiar tuto l’ano e legne e zochi/vegnimo dal Friul nostro paese/la strussia è grande e se ne chiapa pochi”, (Per tagliar tutto l’anno legna e ceppi/veniamo dal Friuli nostro paese/la fatica è grande e se ne prendono pochi).
E per finire i conzalavezi, cioè gli aggiustapentole, ramai e stagnini, quei calderari ambulanti che in Val Tramontina si chiamano comunemente arvârs e in Friuli generalmente cjalçumits, vocabolo che deriva dalla parola tedesca Kaltschmied, alla lettera “fabbro a freddo”, tra le cui abilità, oltre a quelle di rattoppare tegami e stagnare secchi e bacili, rientrava anche quella, non proprio esaltante ma comunque richiesta, di castrare gatti e maiali, per una affinità di imprescj, di ferri del mestiere, tenaglie e coltelli, forbici e filo, non diversa dalla ben più nota affinità tra tonsori e ciroics, cioè barbieri e chirurghi.
La parola arvâr, equivalente a calderaio e stagnino, pare invece derivare dal gergo dei mercanti di cavalli d’Abruzzo, là dove ha il significato di compagno e amico.
E a proposito dei conzalavezi che, cassetta sottobraccio, offrono i propri servizi nella città lagunare, loro meta abituale, ecco puntualmente i versi dello Zompini a commento dell’immagine: “Conzo lavezi roti, e castro gati/meto pezze a caldiere e alle fersore/col fil de fero cuso squele e piati”, (Acconcio paioli rotti e castro gatti/metto rattoppi a caldaie e friggitoie/col fil di ferro aggiusto scodelle e piatti).
E siccome la storia talvolta si diverte a lasciare, tra le orme opache del passaggio di persone e popoli sulla scena del mondo, anche qualche prezioso indizio, ecco affiorare dalle carte del Magistrato Eccellentissimo delle Biave il conzalavezi Fachin Domenego della Villa di Tramonto in Friuli con Fachin Bortolo di Domenego (probabilmente suo figlio), citati, pare di capire, per una indebita occupazione di suolo pubblico davanti alla bottega di un pistorio.
Forse, da bravi arvârs, s’erano messi lì accovacciati a rattoppare secchi e tegami, a stagnare qualche vecchia pentola o a riparare qualche scaldino e i loro giacconi e i loro volti anneriti dalla fuliggine mal si confacevano al lindo grembiulone del fornaio e al decoro della bottega.
Siamo nel 1796, l’anno che precede l’arrivo del giovanissimo castigamatti Napoleone e il conseguente crac della Serenissima.
Neppure venti anni dopo, con Waterloo e il Congresso di Vienna, si rimescolano le carte e il potere passa in altre mani, sotto le nere ali dell’aquila bicipite.
Naturalmente anche mestieri e professioni cambiano.
Spaccalegna, bottai, impagliatori, conzalavezi e tante altre attività importanti, rese via via inutili dall’evolversi dei tempi, specchio lontano di un mondo che ritmava il passo della mente su quello delle gambe, pur senza scomparire, declinano o si evolvono.
Il secolo lungo
Siamo nel 1817, l’anno senza estate, l’anno della fame in Friuli e in tutta Europa.
Oggi sappiamo che la causa prima fu l’eruzione apocalittica del vulcano Tambora in Indonesia (aprile 1815) le cui ceneri oscurarono il sole. Piovve a dirotto, non si seminò e non si raccolse. Senza contare due nefasti decenni di guerre, saccheggi e requisizioni.
La fraternité francese si era rivelata il più delle volte un concetto vuoto, un normale specchietto per le allodole, un puro e semplice instrumentum regni.
In laguna si erano riversati centinaia di miserabili alla ricerca di un tozzo di pane e tanti ambulanti attenti a cogliere opportunità per sbarcare il lunario.
Ma anche i Veneziani stessi, i povericristi beninteso, non se la passavano bene dal momento che, come riferiscono le cronache, c’era persino un mercato clandestino delle pantegane. La fame, si sa, fa brutti scherzi e la madia vuota è una pessima consigliera.
I nostri erano visti con malcelato disprezzo e furlan era sinonimo di miserabile e poveraccio. Ancor oggi a Venezia sopravvive l’espressione “Dime can ma no furlan”, ricordo di quell’antico disagio, di quella parentesi oscura con cui quasi tutti furono chiamati a fare i conti.
Ai Francesi erano subentrati gli Austriaci. Le cose pian pianino si rimisero in moto pur tra mille difficoltà. Riprese l’attività dell’arsenale e del suo indotto e si rimisero in moto i piccoli commerci per terra e per mare.
Per “corregger la fortuna” si rimisero in moto verso il Lombardo Veneto anche i mestieranti girovaghi del Cadore, dell’Alpago e del Friuli. Anche i nostri arvârs si rimisero in strada a piccoli gruppi, coi loro barei e con le loro pignatte.
A metà dell’Ottocento l’Austria rivolge una particolare attenzione alle persone che si muovono e tiene d’occhio l’ambulante per cogliere eventuali altre intenzioni che non siano strettamente legate alla professione. Li sorveglia con un’attenzione non minore di quella con cui oggi Polizia e Carabinieri tengono monitorati i giostrai. Spie e spioni erano all’erta e non mancavano delatori e delazioni.
L’Austria aveva paura di complotti e di sedizioni essendosi accorta che la gente, in Italia più che altrove, era inclinata a “dir mal del principato sia in pubblico che in privato, dir mal di chi corregge, sbefarse di ogni legge”.
Naturalmente gli arvârs, ambulanti e girovaghi non per vocazione ma per necessità, raminghi e senza fissa dimora, erano visti con sospetto come possibili elementi perturbatori di un mondo rigido e statico in cui il motto condiviso dai più era “Ruhe und Ordnung”, pace e ordine.
Da qui nasceva per gli arvârs la necessità di vivere defilati e di badare all’essenziale tenendosi come in un cono d’ombra, lontano da luci e da cicalecci, da strane frequentazioni e da ogni altra mondanità.
L’imperativo categorico, la parola d’ordine era: no impaçâsi, badare agli affari propri e non interessarsi di politica. Insomma, era importante lavorare per ragranellare qualche palanca in momenti di grave difficoltà economica non solo in Val Tramontina ma nella stessa area veneta da essi frequentata tra Piave e Romagna. Erano tempi duri anche per i conzalavezi.
Nel 1848 ci fu una fame nera a Venezia. Le cronache raccontano che non c’era farina neppure per fare le ostie e si cucinavano i gabbiani. Però nobili, possidenti e prelati di rango, come al solito, se la passavano piuttosto bene a dimostrazione che “quando che se nasse fortunà te piove sul cul anca se ti sta sentà”.
Come s’è detto, gli spostamenti degli ambulanti erano attentamente controllati. Sul barel, tra tegami e ramine, tra secchi e scaldini potevano facilmente annidarsi anche pericolose idee atte a favorire turbamenti e ribellioni. Agli occhi di Sua Maestà Imperial Regia Austriaca (SMIRA) l’arvâr poteva essere il portatore sano di sediziose idee carbonare che avrebbero potuto suscitare un …quarantotto.
Da qui la necessità per gli arvârs di ottenere quel particolare documento che in friulano si chiama ausvai, cioè il lasciapassare, il permesso per muoversi sul territorio, parola che deriva dal tedesco Ausweis.
Così ci informa un ausvai del 1846: Regno Lombardo Veneto. In nome di Sua Maestà Ferdinando Primo Imperatore d’Austria, Re di Ungheria, Boemia, Lombardia, Venezia, ecc., ecc., l’Imperial Regia Delegazione Provinciale di Udine invita le Autorità Civili e Militari ad accordare libero passaggio e assistenza a Iseppo Canderano di Tramonto il quale si reca nella marca Trevisana per lavoro col figlio suo Matia…
Come l’Austria temeva, nel 1848 ci fu proprio un …quarantotto e, a seguire, le guerre d’Indipendenza e l’Unità d’Italia nel 1861, completata (anche se non del tutto) cinque anni dopo quando le truppe italiane il 26 luglio entrarono a Udine.
L’Europa si preparava a vivere una stagione indimenticabile, pervasa da fortissimi fremiti innovatori, caratterizzata da piccole e grandi invenzioni e scoperte che l’avrebbero cambiata e avrebbero sicuramente cambiato il mondo. Una stagione che fu definita non a torto Belle Epoque, chiaramente bella per alcuni, e un po’ meno bella per altri.
Se le luci splendevano a Parigi, la ville lumière per eccellenza, l’Italia se ne stava ancora in penombra. Non andava meglio nelle valli friulane, dove tutti stavano in attesa di qualcosa.
In Val Tramontina il barel se ne stava ozioso sotto le logge porticate in attesa di tempi migliori, col barattolino della sugna ancora appeso all’asse per ungere le ruote. (continua)