"BRUTTO FRONTE IL PIAVE"
di Stefania Miotto
Nell’ultimo anno della Grande Guerra, tra il novembre del 1917 e lo stesso mese del 1918, il Friuli e il Veneto orientale subirono un duro periodo di occupazione austro-tedesca, con condizioni di vita difficilissime, tra penuria di cibo, devastazioni, saccheggi, soprusi e violenze di ogni genere.
Il centenario, vissuto per nostra fortuna in condizioni di pace, ci consente di riproporre, tra i numerosi testi disponibili, il diario di Caterina Nodari, pubblicato in dieci puntate nel quotidiano udinese «La Patria del Friuli» dal 19 luglio al 2 agosto 1919 e dato poi alle stampe, nello stesso anno, con il titolo Memorie di una maestra durante l'anno di occupazione nemica: 1917-1918, S. Giovanni di Polcenigo (Udine). Informazioni sulla famiglia dell’autrice sono celate nella dedica: «A mio padre Cav. Sante Nodari figlio di eroi del forte Friuli…».
L’udinese Sante Nodari (1844-1899) era figlio di Girolamo, il capitano che aveva guidato la resistenza del forte di Osoppo durante l’assedio del 1848. Nel 1867 si era arruolato nel corpo garibaldino per combattere a Mentana.
Caterina discendeva dunque da una famiglia di patrioti. Nel dicembre 1888, a ventidue anni, con altre giovani maestre si era imbarcata dal porto di Brindisi per prendere servizio nelle scuole italiane all’estero: era stata destinata a dirigere il Giardino d’infanzia di Braila, città della Romania sud-orientale. Tornata in Italia all’inizio del decennio successivo, si era dedicata all’insegnamento, fino al suo arrivo a San Giovanni di Polcenigo nell’autunno del 1917.
La Nodari si trovava da un mese nel borgo, assegnata alla località altoliventina dal Consiglio scolastico provinciale di Udine, quando l’invasione nemica la colse. Il 27 ottobre 1917, data con cui si aprono le memorie dell’autrice, iniziarono a circolare voci dolorose sull’avanzare dell’esercito austro-tedesco. L’ansia aumentò nei giorni successivi. «Il disastro è dunque vero? Passano di ritorno gli operai che lavoravano nelle trincee e fanno discorsi che straziano l’anima. Gran Dio, salvate l’Italia!»
Dal 29 ottobre si videro passare le truppe italiane in ritirata, quindi cominciò l’esodo dei profughi. «Contadini scompagnati o a coppie o a famiglie intere; mariti e mogli coi bambini al collo, con ragazzi per mano. Vecchi che passano curvi sotto il peso della loro povera roba, o spingendo misere carrette dietro cui stanno i figli, carichi anch’essi. Ma è dunque così grande la nostra sciagura?». L’offensiva su vasta scala degli Imperi Centrali aveva determinato il crollo del fronte italiano a Caporetto, e la rovinosa ritirata sin oltre il Piave. Quando Caterina risolse di lasciare il Friuli, era ormai troppo tardi: i reparti austro-ungarici, già alle porte, il 6 novembre arrivarono a Polcenigo. Subito iniziarono le prepotenze, i soprusi, i saccheggi riducendo la popolazione civile allo stremo; ogni tentativo di nascondere scorte alimentari fu reso vano dalle continue incursioni di soldati affamati quanto i civili. «Non rimane nulla di intero: avanzi e frammenti dovunque; sul focolare, dai tizzoni avanzati, si arguisce che braccioli di seggiole, gambe di tavoli, sportelli di armadi han servito per alimentare il fuoco. Ubriachi, lasciano che il vino corra per la cantina». A farne le spese furono innanzitutto le donne, poiché i loro uomini erano al fronte. Caterina riporta l’episodio della donna polcenighese uccisa «perché ospitava di nascosto un prigioniero italiano», mentre la frase «dobbiamo subire tutte le loro volontà» sottintende probabili casi di stupri di guerra.
Vittime di quell’anno orribile furono anche i bambini, costretti a elemosinare il cibo o mutilati da materiale bellico abbandonato. Lo stesso esercito nemico era alla fame, i soldati frugavano persino nelle immondizie, facendo bollire nelle gavette un miscuglio di pannocchie, zucche, cavoli, uva acerba, per poi mangiare «a quattro palmenti». Solo gli ufficiali non si privavano di nulla: mense imbandite, festini notturni con musica assordante e fiumi di vino. Fecero giungere in paese un gran numero di donne tedesche, che Caterina vedeva «passare in vettura, a tiro di due cavalli, molte vestite coll’uniforme delle dame infermiere della Croce Rossa, fresche e ridenti, civettuole e indifferenti alle nostre sventure».
Per ordine del comando germanico il 10 gennaio 1918 furono riaperte le scuole. «Ma che scuola si può fare? Le aule sono completamente deserte di ogni suppellettile: quanto questi barbari hanno potuto l’hanno portato via. Siamo costrette a trattenere le alunne in piedi, senza far nulla». Poco dopo anche le aule furono occupate; da allora si fece scuola in sacrestia «una scuola gratuita, s’intende, tanto per non lasciare i fanciulli disoccupati». Oltre alla Nodari e a una collega, che dal giorno dell’invasione non ricevevano più lo stipendio, tenevano le lezioni il figlio del direttore scolastico, il parroco e un prigioniero italiano, fatto passare per un chierico.
Entrambe le parti utilizzarono ampiamente la propaganda di guerra. La Gazzetta del Veneto, giornale di occupazione austro-ungarico redatto a Udine, nel maggio 1918 descriveva con toni idilliaci la felice riuscita in città della “Festa del soldato”; nel contempo aerei italiani lanciavano volantini per fiaccare il morale dei soldati austriaci e incoraggiare la popolazione, promettendo un’imminente vittoria.
Dopo la violentissima “battaglia del Solstizio” del giugno 1918, ultima grande offensiva sferrata dall’esercito austro-ungarico e tramutatasi in un fallimento militare, l’andirivieni di mezzi e truppe fu continuo. La popolazione, all’oscuro di notizie, iniziò a percepire segnali di cedimento del nemico. «Brutto fronte il Piave», ripetevano i soldati occupanti, anch’essi allo stremo. Con l’autunno, mentre i nemici requisivano il nuovo magro raccolto, cominciò a diffondersi la terribile “influenza spagnola”, una vera e propria pandemia che tra il 1918 e il 1920 avrebbe fatto milioni di vittime nel mondo, uccidendo più persone della stessa Grande Guerra. Tra ottobre e novembre a Polcenigo si registrarono anche 3-4 decessi al giorno.
Il 27 ottobre 1918 iniziava finalmente la ritirata nemica, accompagnata da rabbiose spoliazioni. Le ultime pagine del diario conservano intatta, nel periodare sincopato, la concitazione e l’euforia della liberazione: era la fine, tanto attesa, di un lungo incubo.
«31 ottobre 1918 - Sono le 18. Due colpi di mitraglia ci avvertono che gli Italiani sono vicini. Li attendiamo con impazienza. L’esercito nazionale lungamente aspettato, ansiosamente invocato fra le spogliazioni, gl’insulti, i pericoli è alle porte delle nostre case! […] 1 novembre 1918 - È l’alba. […] Soldati in bicicletta passano, rispondendo ai nostri saluti. Il sacro vessillo della Patria, dopo un anno di occupazione nemica, sventola alle finestre. Ad un tratto uno scalpitio di cavalli ferisce il nostro orecchio. È la cavalleria Savoia che avanza. La trionfale entrata è salutata con esultanza. Grida di evviva erompono dai nostri petti. Al nostro grido fa eco quello dei soldati vittoriosi. Ah finalmente! Finalmente! Dio vi benedica, che siete venuti a liberarci! Benedetti, benedetti! Queste le grida spontanee, mentre gli occhi hanno lacrime di riconoscenza e di gioia…».
Poco tempo dopo la Nodari, che era nubile e durante l’invasione aveva perduto tutti i suoi averi, riprese ad insegnare. Si trasferì prima a Parabiago (MI) poi, dall’ottobre del 1919, a Sumirago (VA) e in Lombardia diede alle stampe il suo diario. Ad oggi, l’ultima notizia che la riguardi è il trasferimento a Torino nel giugno 1937: forse aveva trovato, nella sua città natale, un posto dove trascorrere una serena vecchiaia dopo tanti travagli. Chissà se la maestra era ancora viva alla fine del decennio, quando l’Italia di Mussolini si alleò con la Germania nazista, seguendo il dittatore tedesco nella tragica follia di un secondo conflitto mondiale: lutti, sofferenze e brucianti lacerazioni, tuttora divisive della coscienza nazionale, erano di nuovo alle porte.
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