di Enos Costantini
Chi bada ai fiori di olmo? Ai non botanici lettori apparirà il fumetto col punto di domanda sul cerneli: gli olmi hanno fiori?
Sì che li hanno, come tutte le piante che si rispettino: i fiori non sono altro che l’apparato sessuale. Devono pur riprodursi.
Quelli dell’olmo sono fiori di febbraio; prodromo, prologo, trailer della primavera a venire.
– Ah, no! – dirà il botanico lettore – i primi fiori sono quelli del nocciolo, il noglâr dei friulani.
Sì, ma chi bada ai fiori del nocciolo? Le parti maschili, separate da quelle femminili, sono degli amenti penduli (la normalità dei maschi) che mandano nugoli di fastidioso polline e le parti femminili sono così pudiche che si tengono pudicamente defilate e sono distinguibili dalla botanica curiosità solo grazie a due stimmi rossoporporini. E i mangiatori di nocciole? Nella nostra società i mangiatori di nocciole sono quelli del club che una volta si chiamava “degli spalma spalma”, cioè mangiano tanto zucchero condito con poche nocciole (ma non vi ho sempre detto di leggere le etichette?) in una chiamiamola crema di un color marron intenso, lo sterco del demonio, che non è quello dello zucchero e non è quello della nocciola. Come potete pretendere che costoro badino alla fioritura, così felicemente precoce, del nocciolo detto noglâr dagli ultimi Mohicani della nostra lingua?
E come potrebbero essi loro, fatti e assuefatti di slicchignoso dolciume, distinguere un nocciolo da un tasso barbasso?
Colloredo (di Montalbano, di Soffumbergo, di Prato) vuol dire ‘noccioleto’ (‘corileto’ in italiano più dotto), ma quanti abitanti di Colloredo bazzilano dietro i noccioli?
Nessuno, che io sappia, a Colloredo di Montalbano. Forse perché in quella ancor amena plaga i noccioli son ridotti a pochi selvatici esemplari scanchenici negli ormai sparuti remis fra un campo di mais e un campo di soia.
Gli olmi, dicevamo. Ce n’erano di
maestosi all’Istituto agrario di Cividale, quindi piantati negli anni Venti, e lì, fossi stato studente o insegnante, mi portavano un primaverile zeffiro zoruttiano nell’anima.
E v’erano olmi per ogni dove. Poi avvenne che una malattia fungina se li portò via quasi tutti con la complicità di un insetto coleottero scolitide capace di scavare gallerie dall’estetica tipografica.
I forestali, sempre attivi e attenti, notarono che l’olmo siberiano non era sensibile alla malattia (si chiama grafiosi) e, qua e là, si trovano esemplari olmosiberiani, annosi ma di storicamente fresco trapianto. Me ne è nato uno, sua sponte, fuori casa e lo tengo caro anche se non ha i caratteri estetici e le virtù ombreggianti dell’olmo nostrano.
A Cividale il viale che dalla stazione arriva al parco della villa Foramitti, un tempo fiancheggiato da imperiosi ippocastani, dopo anni che questi erano stati proditoriamente segati alla base, forse per un recondito senso di colpa negli eletti, fu piantumato con olmi siberiani. Questi crebbero rigogliosi, ma non ebbero mai il maestoso impatto visivo degli ippocastani. Forse per questo, o forse per uno dei tanti attacchi di feroce dendroclastia che, con periodica pandemica frequenza, attacca l’umano senno, furono ridotti in cataste e se ne fece carne da spolert. Sui loro ceppi venne sparso il sale e mai più si videro alberi lungo quella importante arteria, ora tutta asfalto senza neppure un nastro ciclabile a foglia di fico ecologica.
Sempre a Cividale: un tempo l’entrata in città avveniva fra due ali di svettanti pioppi italici. Magnifici, ed entrata trionfale anche per noi che cesari non siamo.
Furono segati. Eppure ci si trovava ancora in epoca prebossiana.
La Piazza del Mercato di Cividale, come tutte le piazze del mercato attorno per l’Europa, aveva tanti frondosi alberi. La loro ombrene dava ristoro a bestie da compravendita e a cristiani sudati durante le canicole. Furono tagliati e si fece una Piazza dell’Automobile. Eppure l’ombra e le autovetture sarebbero perfettamente autocompatibili. Tanto più che ci si trovava in epoca precondizionamento. Ora noterete che in tanti parcheggi hanno tentato di piantare alberi onde proteggere le autovetture dai dardi infuocati del dio Sole. Ohimè, mettendoci esemplari tanto costosi (alberi e sostegni) quanto inadatti per specie, per età e per condizionamento della pianta. Ne risultano pietosi manici di scopa senza neppur interesse gnomonico. Il vivaista intasca il denaro pubblico e ringrazia l’ignorante, che noi buonisti immaginiamo in buona fede, amministratore (del Comune, del nosocomio, del plesso scolastico, del centro commerciale, ecc.).
Caro lettore, ora non pensare che io ce l’abbia con la ducale città di Cividale. È un dei miei luoghi dell’anima e ho solo pescato nei ricordi geograficamente a me più prossimi.
Il mio fine manifesto sarebbe quello di sensibilizzarti a un fenomeno che ha contraddistinto il passaggio dalla vacca alla televisione: la dendroclastia. Traducila, se vuoi (non ti chiedo di essere grecista) come iconoclastia degli alberi, una manifestazione della dendrofobia. E siamo sempre al greco, sacrabolt. Nel greco antico l’albero era detto, non fatemene una colpa, déndron. E -clastìa viene dal verbo kláein ‘rompere’. Fobìa non serve che ve lo spieghi e, a questo punto, avrete capito che io sono un dendrofilo.
Gli alberi, proprio come noi, hanno pregi e difetti. Difetti: vi sporcano la macchina sottoparcheggiata e le maledette foglie dei platani allineati sulla pubblica via, ignare del sacro principio della proprietà privata, profanano i vostri prati all’inglese front yard, il vialetto civettuolo, il garage col SUV. Fate petizione al sindaco affinché tagli quei maledetti platani, comunisti che proditoriamente aggrediscono il vostro Lebensraum.
Pregi degli alberi, platani comunisti compresi: producono ossigeno. Quel gas dell’aria senza il quale tutto sarebbe deserto, senza neanche le volpi del deserto (si chiamerebbero fennec, da non confondere con Erwin, né con Edwige).
Noi siamo solo capaci di consumarlo l’ossigeno, noi e le nostre macchine che vanno a petrodollari. Producendo quel rifiuto detto anidride carbonica che gli alberi sono in grado di riciclare rallentando, fin che possono, il riscaldamento globale (ma il masse al va parsore) e trasformandolo in legna e, vedi un po’ tu, anche in mele, pere, sespe, ciliegie, albicocche, insomma TUTTI FRUTTI (fu anche una stramba canzone rock degli anni Cinquanta).
La toponomastica ufficiale di tanti comuni (via dei Platani, via dei Pini, via degli Aceri, via delle Acacie, via delle Robinie, via dei Pioppi, ecc.) rende iconici questi santi martiri, come tanti santi nel mirino degli iconoclasti e soggetti al martirio da motosega. Martirio che, ben visibile a primavera con monconi e moncherini che si stagliano contro il cielo, in italiano ha preso un nome: taglio ANAS.