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Copertina n24
17 Giugno 2019

Un Calvario al contrario

Gimli

È l'intenso racconto di giorni e notti che un giovane uomo ha vissuto
entrando in coma a causa di un
malore epilettico.

Nel sonno si ammassavano gli incubi. All'inizio sfuggenti, poi sempre più opprimenti, toccavano angosce e paure profonde. Desideravo il
risveglio, ma il tempo scorreva lento, con torture psichiche insistenti che si accanivano su quel mio brandello d'anima che tentava di resistere.
Ero come un nuotatore in apnea che, finito l'ossigeno, tenta disperatamente di risalire alla superficie, ma rimanevo ancorato al fondo.
Ero come una barca sballottata dalla tempesta, e quando il mare si chetava, la barca rimaneva alla deriva con il fluire di immagini più tranquille. D'improvviso la voce e il volto appena delineato di mia
madre che mi tranquillizzava, con mio padre vicino.
Immagini che non riuscii a rendere concrete, che diventarono subito sfuggenti e in un attimo ripiombai nell'abisso dei miei incubi, sempre più ossessivi, un fardello che rese il mio continuo sonno insostenibile, ma che ero costretto a subire senza poter reagire. Inizialmente erano stati incubi astratti, privi di collegamento a ricordi chiari, ma dopo che ebbi la percezione di mia madre divennero una serie di immagini rabbiose e circolari, con la presenza per nulla rassicurante di colleghi e quella più consistente e dolorosa di mia moglie, di me ridotto ad un feto nato troppo presto e lei accondiscendente a lasciarmi torturare da medici impazziti, con nessuno che ascoltava le mie urla mute. Vedevo l'ambiente e le persone circostanti, sentivo le mani immobilizzate, il freddo che si impossessava delle mie membra. Un turbine di immagini realistiche e vivide che si confusero vorticosamente fino a essere
inghiottite nel buio.
Cominciai a sentire dei lunghi bip, il mio respiro ingabbiato. Erano le 4:15. Finalmente avevo aperto gli occhi.
La vista parzialmente offuscata da una maschera di plastica che distribuiva l'ossigeno, a sinistra e a destra i monitor, provai a muovere le mani, ma ero legato. Davanti un bancone lungo con altri monitor. Non riconobbi il reparto, la stanza era unica e separata da paretine.
Le ore successive si susseguirono con poca chiarezza, non riuscivo a parlare, la giornata era scandita dai neon e dal blu delle luci notturne.
In un momento di maggiore lucidità mi spiegarono che ero in terapia intensiva ed ero stato colto da un malore epilettico, avevo passato una settimana in coma, e capii che la
visione di mia madre era stata reale, dovuta ad una fase temporanea di risveglio dal coma farmacologico.
Il trasferimento in neurologia servì per tornare in vita. Quindici giorni per imparare a usare la forchetta da solo e riprendere a camminare.
La grande voglia di tornare a casa, la visita di mia moglie, degli amici e i libri mi aiutarono.
La forza più grande me la diede mia figlia, non avrei mai pensato che fosse così dura la mancanza di un proprio caro. Nei sei mesi successivi, avevo paura ad addormentarmi, gli incubi del coma mi assalivano e mi risvegliavo nel panico.
Ora mi fa più paura tornare in coma che morire. Dopo quel periodo il passato è diventato ostile, il futuro è frenato dalla nebulosità del destino. Vivo camminando passo dopo passo nella concretezza dell'oggi, nella sincerità dei rapporti schietti, nella sintesi dell'utile e del bisogno, senza troppi fronzoli. L'unico viaggio nella fantasia e nella felicità è il gioioso tuffo nella scoperta delle mie figlie, ora due, che mi regalano ogni giorno il calore dei loro abbracci e sorrisi.

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