di Walter Tomada
Non potrebbe esserci esordio più coraggioso e qualificato per una collana di testi, di quello che sceglie un autore come Umberto Valentinis – tra le figure più eminenti di un’alta stagione della poesia friulana – a confronto con un tema dominante del nostro essere, come l’identità fatta di “acque”. O meglio, “Aghes”: la sostanza lirica del dettato di un poeta di razza come è Valentinis sta infatti innanzitutto nel suo idioletto, il “pignòt”, la variante arteniese così tipica e peculiare da mutare la “a” della koinè in una “e” provocatoria e ostentata. Il suo uso potrebbe apparire una sfida al lettore, se non fosse che alcuni dei migliori frutti della poesia in lingua minoritaria che si sono venuti a consolidare in questa regione vengono proprio da idioletti estremamente circoscritti: il friulano di Navarons per Novella Cantarutti, quello di Meduno per Ida Vallerugo, quello di Bagnarola per Giacomo Vit, fino al bisiaco di Ivan Crico. Tutti poeti che scendono nel particolare (una variante linguistica precisa e determinata) per arrivare a esprimere degli intramontabili “universali”: il dedalo della condizione umana, le dinamiche della solitudine, il rapporto tra l’essere e il tempo. E lo fanno sfruttando appieno il differenziale di musicalità ed atmosfera che queste microlingue garantiscono.
In questo panorama Valentinis spicca non solo per la qualità e l’altezza di versi che sembrano attinti da un inesorabile altrove, ma anche per esser stato un pioniere di una tendenza che mostrò nuovi orizzonti alla poesia friulana; “Salustri”, sua opera d’esordio, mostrò quanto fossero sconfinate le praterie che potevano aprirsi ad un uso musicale e metafisico della “marilenghe”. Era il 1968: sono passati 50 anni, ma quelle poesie sembrano scritte oggi. Il poeta da allora ha continuato a forgiare, con irregolare ma fertile e meticolosa sapienza, un’esperienza lirica di assoluta integrità, sempre fedele a se stessa. L’Albero dello Scoiattolo ha il pregio e l’onore di coglierne un frutto maturo e di grande suggestione.
“Aghes” raggruppa due poemetti narrativi che raccontano storie di acqua, fonte di vita per il nostro territorio ma anche sorgente di morte: le acque infatti talvolta reclamano il loro tributo e si riprendono in parte ciò che danno. L’esempio si vede in “Corot par Domenica Marcuça”, nei cui versi si ha l’impressione di esser trascinati dal vortice del destino insieme a una ragazzina che annegò guadando il Tagliamento a soli 14 anni, nel 1852. Tornava dalla sagra di Osoppo, ci dice l’autore. Di quell’evento non si ha altra memoria se non una lapide nascosta su una stradicciola fra Cornino e Peonis: il poeta coglie in quelle parole e nella pietà di chi le incise lo spunto per un moderno requiem in versi, idealmente rivolto a ogni Domenica che una sorte codarda ha inghiottito coi loro sogni, trascinati via dai flutti senza lasciar traccia nella Storia: impossibile non cogliere il richiamo a “Morte per acqua”, decisiva sezione de “La terra desolata” di Thomas Stearns Eliot.
Il secondo poemetto, “Pal Puntiç”, vede Valentinis a confronto con “i suoi fiumi”. Segna il suo avventurarsi nel labirinto ancora incontaminato che si districa fra il Tagliamento, l’Arzino, il Pontaiba e il Cosa. Su quest’ultimo torrente, a Molevana, il ponte che dà il titolo alla raccolta oltrepassa una forra che dovrebbe sapere di abisso, e invece apre, per citare l’autore, “all’indugio e al presagio”. Luoghi in cui rifuggere da uno sviluppo rapace che divora la memoria, e dove trovare una pace autentica, che regali profondità di senso e limpidezza di sguardo.
Profondità e limpidezza. Le stesse caratteristiche della prosa di Valentinis che possiamo apprezzare ne “Il promontorio di Cornino”, prezioso testo che unisce i due poemetti e ne descrive al contempo la ragione e l’urgenza. Quella di riappropriarsi dei luoghi che ”per lunghi anni ci restano ignoti, anche se da sempre costeggiati, intravisti, promessi”; quella di rispondere al loro richiamo selvaggio ed insolito; quella di farne memoria, non confinandoli nell’oblìo. Non servono per questo vane litanie: in Valentinis mai nessuna parola va sprecata e nel nostro mondo che ci sommerge invano di detti e contraddetti, la sua poesia in qualche modo è un’isola in mezzo ad “Aghes” non certo tranquille.